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Sabato 16 agosto, con Jimmy, l’educatore del Centro che opera nella Diocesi di Malindi con il quale abbiamo iniziato un programma di adozioni a distanza, lascio la strada principale e iniziamo una lunga marcia a piedi per giungere alla capanna di un bimbo che si chiama Daniel. La natura è un incanto: felci, palme da cocco, mango, fiori colorati è un’armonia di colori da paradiso terrestre. Il viottolo in mezzo alla foresta è percorso da ragazze che portano sulla testa taniche di 30 litri di acqua per le necessità della propria capanna. In questa terra così bella l’acqua non vi è; anche se è un bene prezioso. Non vi è elettricità, non vi è acqua… ritornando in Italia mi ricordo l’incanto di poter abbassare l’interruttore e di avere luce la sera. Una meraviglia che purtroppo scordiamo, un gesto meccanico che diamo per scontato, ma che invece ha dietro di se una evoluzione e un impegno economico inimmaginabile. L’altra grande meraviglia che mi ha colto è quella di aprire il rubinetto e di veder scendere acqua, e questo già è una grande cosa, ma ancora di più il miracolo cresce quando penso che questa acqua non è sporca, ma perfettamente potabile: non è acqua cattiva che ti causa infezione nella pancia, con grandi dolori e gonfiori terribili. Infine questa buona acqua è anche calda o fredda! Triplice miracolo in un semplice gesto di aprire un rubinetto: acqua, acqua che è potabile, ed infine acqua che è anche calda o fredda a seconda delle necessità. Tutto questo pensavo già in Kenya mentre con Jimmy camminavamo lungo il sentiero africano. Ogni tanto dietro le felci si scorgevano le capanne di un villaggio di trenta, quaranta persone. Fumo di un fuoco sul quale si cucina… le donne sono intende a zappare la terra, alzano il viso e ci salutano. Il paesaggio è un incanto e mi dico guarda dove mi ha portato Santina! In un Paradiso terrestre per cogliere le povertà, per crescere umanamente e spiritualmente. Attraverso questa ONLUS Santina continua davvero ad essere viva. Affretto il passo, Jimmy è abituato a camminare e la distanza tra me e lui cresce. Siamo diretti a visitare la capanna di uno dei bimbi che entra nel nostro programma di adozione a distanza.

Il sentiero lascia intravvedere in fondo una capanna. E’ una capanna misera e sembra proprio la capanna del piccolo Daniel. E’ difficile per me descrivere cosa succede nel mio cuore. La piccola e misera capanna affaccia su un piccolo spiazzo dove sorge un alberello; sotto quell’alberello vi è una curiosa panchina, si tratta di un tronco di albero tagliato a metà ed appoggiato da una parte si un altro ciocco di albero. All’ombra dell’albero vi è un piccolo bimbo di circa quattro anni, bellissimo, ma completamente solo, sembra abbandonato. E’ li tutto solo, nella capanna non vi è nessuno, mi si stringe il cuore e mi dico, ma io… lo porto via! Cosa fa qui un piccino tutto solo e indifeso? Daniel riconosce Jimmy e lo saluta festosamente, mentre rimane un po’ perplesso per il colore della mia pelle bianca. Jimmy mi presenta. Ora vedo bene il bimbo ha delle ciabattine blu ai piedi, un paio di jean sporchi e bucati, anche la camicetta ha perso tutti i bottoni ed è quindi totalmente aperta davanti, logora e sporca. Il bimbo appare trascurato, ma la situazione che Jimmy mi racconta è incredibile. Prendo in braccio il piccolo e me lo stringo forte e l’educatore inizia il racconto. “Monsignore, il bimbo è sieropositivo, sono in quattro fratellini, tutti piccoli e rimasti orfani. Il bambino sembra avere tra i tre ed i quattro anni. Il padre ha contaminato la moglie con HIV che aveva contratto in relazioni con altre donne. La mamma di Daniel si è poi ammalata di AIDS e recentemente è morta”. Jimmy mentre mi parla mi mostra una carta sulla quale sono raccolti i dati del bimbo forniti dalla mamma, che ormai è morta. Si riconosce un’impronta digitale con inchiostro verde… perché la mamma era analfabeta. Il bimbo che tengo in braccio è tenerissimo, lo guardo e mi sorride. Mi dico, ma che colpa ha di essere già infetto di HIV alla tenera età di tre o quattro anni? Lo bacio forte e ripetutamente come facevo con Santina. Ed ancora le medesime reazioni, Mamma con quei baci si apriva ad un sorriso solare ed il piccolo Daniel spalanca il volto ad un sorriso bianchissimo e pieno di dolcezza. Questo bimbo chissà quanto ha sofferto… Daniel mi prende per mano e mi fa entrare nella piccola e buia capanna. I quattro bambini vivono qui con la nonna Katsaka Kenga, una signora anziana per l’Africa, che ha sulle sue spalle i quattro bambini orfani perché il padre è fuggito e non si sa più nulla di lui. Jimmy mi dice che la nonna è una signora sensibile e buona che ha conservato in se il profondo spirito dell’Africa di servizio e generosità. La nonna non c’è perché sta svolgendo un lavoro saltuario. All’interno della capanna non vi è neppure un letto e Daniel mi indica come luogo dove dorme un cantuccio della capanna dove è steso un pezzo di plastica… la parete, fatta di rossa argilla screpolata lascia vedere da ampie fessure l’esterno; dunque il piccolo di notte non è ben riparato. Jimmy mi mostra la lampada al cherosene, la accende e subito si produce un fumo nero irrespirabile; in un altro angolo la parvenza di una cucina, un piccolo sacchetto bianco che contiene sale, un piatto, un cucchiaio ed un mestolo di legno lurido. Questa è la reggia di Daniel, in questa capanna vive questo angelo dagli occhi tristi e pensierosi, ma che un bacio trasforma in grandi diamanti di gioia. Daniel ormai ha preso familiarità con me nel tempo trascorso; mi prende per mano e mi conduce dietro la capanna, dove vediamo una specie di doccia, mentre non vi è traccia di servizi igienici. Ma il momento che più mi coglie di sorpresa è quando il piccolo Daniel nel campo vicino alla capanna con le sue manine nere lentamente sposta gli arbusti e le felci ed emerge una croce bianca di legno. Vi è scritto sopra Grace Kenga N.19.8. 2013 M.16.3.2014. Il bimbo con i grandi occhi mi fissa intensamente e con la manina mostra la croce… Chiedo a Jimmy: “Ma chi è?” “Padre l’AIDS ha ucciso la mamma di Daniel, ma prima di uccidere la mamma il mese scorso, aveva già ucciso la piccola figlia che è morta alla tenera età di sette mesi, infettata questa volta dalla mamma che l’aveva partorita. L’HIV si è trasformata poi velocemente in AIDS perché qui questi bimbi non mangiano e le difese immunitarie calano lasciando spazio alla malattia”. Rimango attonito davanti alla tomba della piccola bimba a pochi metri della capanna abitata da quattro orfanelli e da una nonna che anch’essa è sieropositiva per aver accudito amorevolmente la figlia. Chiudo gli occhi e mi raccolgo in preghiera davanti a quella tomba e ancora una volta, per l’ennesima volta in Africa non riesco a trattenere le lacrime. Piango, se ne accorge il piccolo e se ne accorge Jimmy che mi lascia solo con Daniel, lui mi tira i calzoni vuole venire in braccio e io voglio prenderlo in braccio, lo stringo forte, forte e singhiozzando bagno la sua faccina con le mie lacrime; lui utilizza un lembo sudicio della camicia per asciugarmi le lacrime io lo riempio di baci e chiedo a Gesù di illuminarmi su che cosa devo fare. E’ una provocazione potente, tutto questo mi scava il cuore e mi pone domande nel cervello che sembra impazzito. Jimmy ritorna con il fratellino di Daniel, mi asciugo con il fazzoletto il volto ed il ragazzetto, fratellino di Daniel ha nelle mani un disegno. Si tratta di un lavoro che il piccolo ha fatto con i pastelli alla missione dalla quale arriva e felice mi regala il suo capolavoro. Torno così in Italia con due tesori preziosi una è una camicia strappata di un bimbo di nome Charles e l’altro è il disegno fatto in una capanna da un piccolo bimbo africano dal cuore grande. Penso proprio che al piccolo Daniel: daremo per lui aiuto con una adozione a distanza! Magari me lo prenderò proprio io… Con 300 euro in un anno posso metterlo in un asilo e così non rimarrà più a casa da solo ed inoltre potrò dare a Lui un pasto caldo al giorno ed impedire che l’HIV presto diventi AIDS e un’altra croce bianca troppo presto venga piantata, come nel caso del piccolo angelo di Grace, volata in cielo con AIDS alla tenerissima età di pochi mesi.

Mentre scrivo lontano dal villaggio di Daniel, qui a Roma penso a Daniel che questa notte dormirà in quella capanna su un pezzo di plastica e con spifferi di vento attraverso l’argilla screpolata. Guardo al disegno del fratellino e recito un’ Ave Maria… La mia sera si chiude con il pensiero ed il cuore in quella squallida capanna, dove la lampada al cherosene illumina la notte, dove quattro piccoli bambini dormono con la loro nonna, mentre fuori a pochi metri la croce della sepoltura di Grace ricorda che la morte in Africa è proprio fuori dalla porta, ma forse lo è anche in Italia solo che … non ce ne accorgiamo. “Signore proteggi quei piccoli quattro angeli, dai a loro un futuro di speranza”. Adottare un bimbo a distanza come Daniel, ecco quello che si può fare per l’Africa, per il Kenya, per il piccolo villaggio di Msabaha. Perché non adotti un bimbo a distanza, tu che hai letto fino a qui?

 

 

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